Domande complesse e risposte semplici: “Si tratta di un
indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma” (W:C.), chiuso in
un barattolo di vetro, sigillato in una scatola di cemento poi gettata nella
Fossa delle Marianne (aggiungiamo noi). È una banale constatazione per quanto oggi è possibile
osservare nella sua architettura, nei suoi bizantini meccanismi di funzionamento
interno che pure la mantengono in piedi. Una qualsiasi altra “Azienda normale” vedrebbe
la fila di quanti sarebbero presi a calci in culo e restituiti a sani lavori
agricoli dove mancano braccia volenterose. Ma una “Azienda nomale” dovrebbe
avere “azionisti” normali che invece tanto “normali” non sembrano proprio
essere di questi tempi.
Perché proprio oggi questo primaverile interrogativo? Anzitutto,
molti nostri amici lettori sanno che il sottoscritto per “dovere istituzionale”
e per piacere si occupa di cinema e neanche poco. Come noto, noi arriviamo
sulle notizie alquanto in ritardo, il tempo necessario per metabolizzare,
capire, chiedere e approfondire. Allora, è successo che ieri Il Tempo ha
pubblicato un articolo con il titolo “La realtà portata sullo schermo con i
documentari di Rai Cinema” dove si legge che “Dal 2010 al 2021 Rai Cinema
ha prodotto 475 documentari… per un investimento pari a 33 mln di euro” … “…di
cui 136 ospitati nei più prestigiosi festival internazionali …”. Accipiccchia,
un affare!!! Complimenti: immaginiamo la bacheca ricca di ambiti trofei di “partecipazione”!!!
Abbiamo fatto subito una semplice divisione per capire
quanto è costato ogni documentario targato RaiCinema, cioè 33.000.000:475= 69.473
Euro. Ci sembra un costo alquanto contenuto che lasciano intendere due
possibilità: o a RaiCinema i documentari li regalano un tanto al chilo o chi li
produce e li vende è animato da spirito missionario e i prodotti acquistati non
valgono una mazza. Come può costare, mediamente, 69 mila euro un documentario? Mistero.
Ci sarebbe una terza possibilità offerta dalla statistica: proviamo a supporre che
almeno 10 documentari, di un grande autore che richiede grandi mezzi di
produzione, possa costare 1 mln = 10 mln, ne rimangono 23. Facciamo che almeno
20 possano costare ½ milione = altri 10 mln e ne rimangono 13 per realizzarne
445= 29 mila euro! Ovviamente noi non siamo bravi a dar di conto ma ancora
non ci siamo rincoglioniti del tutto. Ripetiamo quanto scritto prima con i
conti aggiornati: come può costare, mediamente, 29 mila euro un documentario? Infine:
475 in 11 anni = 43 documentari l’anno. Dove sono andati a finire? In quale rete
Rai sono stati trasmessi? Ovvero in quante sale cinematografiche e quanto hanno
incassato ognuno o almeno complessivamente tutti e 475? Se non conosciamo questi dati ... tutto il resto è noia. Lo ammettiamo, qualcosa
ci sfugge, pur tuttavia molto altro ci è ben chiaro.
Ma il vero mistero sono le dichiarazioni congiunte di Paolo Del Brocco, AD di Rai Cinema, e del suo presidente Nicola Claudio rilasciate a Cannes: “Il documentario è un genere di massima espressione e approfondimento della realtà, che ci offre una maggiore comprensione anche del mondo di oggi”. Buuuum, clamoroso!!! Questa frase ci sembra di averla già sentita da qualche parte. Se non lo avessimo letto, nero su bianco, avremmo faticato a crederci. Allora proseguiamo con le domande “sceme”: ci sbagliamo oppure dovrebbe esistere in Rai una apposita direzione chiamata appunto “Documentari”? Per chi produce documentari Rai Cinema? Per le sale? Quali sale? Per il grande pubblico del Cinema o per quello dei telespettatori Rai? Chi li ha visti, quando e dove sono andati in onda? Leggiamo quanto scritto nella sua “mission”: “Il Documentario si è imposto negli ultimi anni come una forma di racconto capace di raggiungere un pubblico ampio e trasversale… Ma c’è anche una motivazione più profonda alla base di questa nuova popolarità del documentario: il bisogno di comprendere meglio la realtà … La prima sfida di Rai Documentari è trovare il proprio pubblico, e per farlo è necessario lavorare in più direzioni. Il primo obiettivo è stato creare uno spazio riconoscibile nel palinsesto Rai”. Bene…interessante. Vediamo allora quanti sono i soggetti coinvolti all’argomento: il primo, ovviamente, è lo stesso RaiDoc, poi c’è Rai Cultura, poi c’è Rai Play, poi ci sono specifici “Potentati di rete” (uno su tutti: quella della famiglia Angela su RaiUno per non dire di quelli utilizzati da Rai Tre) e, infine, in quota parte i Tg (vedi Speciali del Tg1).
Si tratta di
un argomento sul quale ci sembra ci sarà molto da capire e sapere. Intanto ci
limitiamo ad osservare che anche in questo campo, come del resto gli altri
(vedi informazione) siamo in presenza del disordine più totale per quanto riguarda la
politica industriale. Perché Rai Cinema si occupa di documentari
o almeno perché non lo fa in coordinamento (editoriale e gestionale) con Rai
Documentari? E perché questo genere, tanto giustamente esaltato, non trova
riscontro nel panorama dell’offerta che sembra provenire per larga parte di acquisto
e non di produzione autonoma? La risposta l’abbiamo scritta anche a suo tempo
quando parlammo del Documentario su Pompei, acquistato dai francesi: produrre documentari
costa e tanto. Si tratta semplicemente di scelte di “politica industriale” nonché
editoriale che Rai non compie, non vuole compiere. Quale può essere la logica
che guida una spartizione di ruoli, competenze e risorse così frastagliata? A chi
conviene? La tanto citata BBC di Sir David Attenborough per riprendere 1 minuto
di una scimmia che fa pipì sotto un baobab nel cuore dell’Africa, impiega 10 persone
h24 per settimane in attesa del momento giusto. A quanto ammonta il budget di
Rai Documentari? È adeguato e sufficiente?
Cosa è la Rai oggi? Questa è solo una piccola parte, molto
ricca.
bloggorai@gmail.com
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