Lentamente, ma ne siamo venuti a capo sul perché i partiti, tutti, si trovano nello stallo. Banalmente per due ordini di motivi. Il primo attiene al nome, alla persona che si vorrebbe indicare. La maggioranza si è inchiodata sul nome Agnes pur sapendo che non passerà mai (o non dovrebbe). Non sanno come uscirne senza dover evidenziare una clamorosa sconfitta e non hanno un Piano B dignitoso. Sullo stesso fronte è incastrata l’opposizione: no alla Agnes ma sanno pure che non è sufficiente per trovare una soluzione. Si tratterebbe di trovare quel famigerato “presidente autorevole e di garanzia” che, al momento, nessuno conosce (o forse anche si e Bloggorai lo ha anticipato).
Il secondo ordine di motivi è da ricercarsi nella teoria del “malloppo completo”. Tutti sono consapevoli che il/la Presidente Rai conta quanto il due di coppe quando regna denari: il potere vero è altrove, anzitutto nelle mani dell’AD e poi giù pe’ li rami fino ai direttori di qualcosa, meglio ancora se dotati di ricco budget (fiction, cinema etc) oppure dove si governa la "narrazione del Paese". Non parliamo poi delle testate giornalistiche, bocconi pregiatissimi, dove il fior da fiore è il direttore del Tg3 ora vacante dopo le dimissioni di Orfeo (quota PD). In buona sostanza: la nomina del presidente non si schioda fintanto che non si completa la spartizione del bottino al quale tutti debbono partecipare, in quota parte.
Questi due ordini di motivi, alquanto razionali e facilmente intellegibili, si debbono poi collocare in un contesto “paranormale” ovvero politico di cui abbiamo accennato ieri: la fiducia e il sospetto, nonché la sottile ostilità, che serpeggia tra le fila di entrambi gli schieramenti. Tanto per capirci: FI si fida della Lega come pure FdI di fida di entrambi i “soci” di Governo? Qualche dubbio è lecito. A sua volta, il PD si fida di M5S e AVS che hanno già dato prova di sapersi sfilare al momento giusto e rompere il patto nefasto “prima la riforma e poi le nomine”? Come, viceversa, il M5S si può fidare del PD che quando occorre non lascia nemmeno le briciole? Qualche dubbio è lecito. Abbiamo letto tutti tante volte del Tg3 come ultimo baluardo del PD ma abbiamo letto pure tante volte che a quella stessa poltrona ambisce il 5S. Come si conciliano i due interessi?
Non è sufficiente questo contesto ma occorre allargare l’orizzonte. Da pochi giorni è iniziato il dibattito parlamentare sulla riforma RAI dove non si intravvedono segnali di grande distensione, anzi. Teoricamente, con molto sforzo, si dovrebbe dibattere della sola governance, ovvero come superare la Legge 220 del 2015 per individuare un nuovo modello in grado di adempiere a quanto previsto dall’EMFA. Così invece, giocoforza, non sarà per due solide argomentazioni. La prima riguarda una impellenza dirimente cioè il prossimo canone dove, sappiamo con certezza, che le opinioni sono radicalmente diverse e poco conciliabili tra loro. La seconda ragione si riferisce al merito, cioè ad un modello che da più parti si propone: la Fondazione come nuova “proprietaria” del Servizio Pubblico. In soldoni: il “triangolo delle Bermude” dove si potrebbe perdere la RAI ovvero Risorse, Governance e Missione, è tutto da chiarire e non sarà affatto semplice. “Mission impossible” immaginare una riforma che non tenga saldamente connessi e in piedi i tre pilastri di cui sopra.
Ma c’è un quarto pilastro del quale pure è difficile non tenere in debito conto: le tecnologie di trasmissione. La Tv generalista sul DTT seppure aggiornato ha gli anni contati (la BBC ne stima circa 10) quando il broadcast potrebbe essere completamente superato dal broadband. Obbligatorio metterlo in agenda. Nei giorni scorsi vi abbiamo accennato ad un articolo interessante proposto da Italia oggi con il titolo “Dante Elan Closs Stephens della Bbc: molti obblighi a noi e niente alle piattaforme. Tv pubblica, servono tanti soldi. Fondi e partner innovativi per prosperare, non sopravvivere”. Leggiamo qualche stralcio: “Siamo una società che afferma: "Voglio il mio programma quando mi andrà di vederlo"; "Non sono disposto a pagare per beni sociali che non voglio"; "Perché dovrei pagare per qualcun altro?". Insomma, ci siamo allontanati dagli ideali di comunicazione di massa e di condivisione di momenti, che erano al centro del nostro settore cento anni fa. Di conseguenza, l'idea stessa di bene pubblico e di servizio pubblico universale può sembrare superata”. Un bel macigno nello stagno. Aggiunge poi “Le emittenti di servizio pubblico pagano un prezzo elevato per la loro universalità, ovvero per la capacità di parlare a tutti, ovunque si trovino. Questo prezzo è la necessità di tenere il piede in due staffe: distribuire attraverso trasmettitori terrestri per raggiungere tutti, e poi distribuire anche su piattaforme digitali. Le piattaforme di streaming, invece, non hanno obblighi simili, sono libere di fornire un servizio esclusivamente digitale. E senza i notevoli costi delle notizie dell'ultim'ora in diretta, un servizio molto oneroso per le emittenti di servizio pubblico. È sicuramente giunto il momento di condividere parte dei costi delle nostre infrastrutture terrestri e anche di quelle a banda larga con tutto il settore”. Altro macigno. Conclude “E tempo di rendere le emittenti di servizio pubblico sofisticate quanto i nostri concorrenti nel raccogliere dati sull'audience, per stimolare il pubblico a condividere il nostro mondo. Ci vorrà del denaro, molto denaro”. Macignone ciclopico. Dalle nostre parti denari non ce ne sono, anzi, ce ne saranno sempre meno. Intanto però osserviamo che “macigni” del genere dalle parti nostre nessuno li solleva e li lancia nello stagno, ovvero nella palude.
Siamo sui bastioni di Fortezza Bastiani in attesa di un/a presidente.
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