1. Ruolo dei consiglieri in Cda. L’art. 63.9 del TSMAR fissa esattamente i loro compiti e limiti: “Il consiglio, oltre ad essere organo di amministrazione della società, svolge anche funzioni di controllo e di garanzia circa il corretto adempimento delle finalità e degli obblighi del servizio pubblico generale radiotelevisivo” quindi deve amministrare, controllare e garantire le finalità determinate dalla Legge. Non si tratta di possibilità ma di preciso vincolo di mandato, reso ancora più forte se questo deriva da una fonte parlamentare nel caso dei 4 nominati dalle Camere o nel caso del consigliere eletto dai dipendenti. Il verbo “svolgere” ha senso imperativo e non facoltativo. Si “deve” controllare e garantire che vengano rispettati gli obblighi (ad esempio di Contratto di Servizio). Le domande alle quali non si risponde (vedi oggi la consigliera Bria su Repubblica) non riguardano un presunto potere preventivo di censura editoriale (che nessuno ha chiesto, nemmeno i più efferati nemici di Sanremo) ma semplicemente se e in che modo il Cda è in grado di esercitare esattamente i compiti che gli sono assegnati. Nel dettaglio: in che termini si tutela la sua “amministrazione” minacciata sul canone, sulla riduzione della pubblicità e sul calo degli ascolti? In che modo si esercita la funzione di controllo che ha la doppia fattispecie preventiva e consuntiva sui conti e sulle scelte strategiche editoriali che si compiono? Infine, in che modo si garantisce il perseguimento dettagliato della norma e dello spirito della missione di Servizio Pubblico?
Oggi non saremmo qui a fare queste considerazioni se la Bria
avesse votato in modo diverso lo scorso 30 gennaio per l’approvazione del budget
2023 senza fornire motivazioni convincenti e nel merito delle scelte proposte. Oggi non saremo qui a dibattere sul “successo”
di Sanremo se non ci fosse stata la grancassa e l’abdicazione delle scelte editoriali
affidate all’esterno compresa quella istituzionale più impegnativa riferita alla
presenza del Capo dello Stato, ad insaputa almeno della stessa Bria (lo ha
appreso dai giornali) e forse di altri che pure avrebbero dovuto sapere.
2. il “successo” di Sanremo. Fino a che punto è lecito continuare a ripetere che è stato un successo, record etc se non si mette in relazione a come è stato ottenuto (contenuti, proposta editoriale, valori sociali ed etici) e per come si “leggono” i numeri (nuova metodologia dello share, valori assoluti, durata dello spettacolo? Se, come si continua a sostenere la via maestra del successo sono lo share in relazione ai “contenuti” che vengono proposti la strada che si intraprende è senza vie d’uscita: basta scegliere tra i generi di larghissimo seguito come ad esempio la cronaca nera, il porno etc. Una volta si teorizzava che la chiave del “successo” di un racconto televisivo era la presenza delle tre “S”: Sesso, Sangue e Soldi e solo dopo si è aggiunta una quarta “S” ovvero il Sogno. La difesa d’ufficio di Sanremo che si propone sembra più orientata a salvare il salvabile piuttosto che a far emergere problemi sostanziali sulla “missione” di Servizio pubblico in cambio della quale si richiede il canone. Se non è chiaro il primo concetto è difficile condividere il secondo. Oggi la Bria sostiene (a proposito dell’affaire Instagram) che “… bisogna investire di più in tecnologie all'avanguardia, formazione, e internalizzazione delle professionalità del futuro, rafforzando capacità editoriale e qualità del prodotto. Puntando sulla digitalizzazione, senza però rincorrere le grandi piattaforme digitali o i social commerciali come Instagram”. Qualcosa non torna: a Sanremo era in prima fila ad applaudire le performance della Premiata Ditta Ferragnez&C. Per non dire delle “internalizzazioni”. Delle due l’una: o vale quanto dichiarato o non vale e, in questo caso, vale quanto successo sul palco dell’Ariston e dintorni (agenti artistici &C).
3. noterella complementare e facoltativa: si ringraziano spesso le “maestranze Rai”. Cosa significa esattamente questo termine e perchè viene usato con tanta disinvoltura? “Maestranze” usato genericamente ad indicare tutto coloro che lavorano in Rai induce a ritenere che appartengano ad un girone inferiore, una serie B dove la seria A è composta da altre categorie, ed è forte la sensazione che questo temine possa assumere un vago senso di alterità e snobismo distaccato. Il temine “maestranze” deriva e si riferisce ad un modello di professione tipicamente declinato dagli artigiani: il maestro di taglio ovvero il parrucchiere, il maestro d'ascia, il maestro d' armi, l' anziano muratore "capomastro", il ”maestro” pittore etc. Si tratta di un termine largamente usato nel mondo del cinema dove effettivamente è ancora fortissima la presenza di queste figure artigianali che, per definizione sono persone che si formano seguendo a loro volta il " maestro" anziano. Ha un senso utilizzare questo temine in Rai dove lavorano operai, impiegati, spesso diplomati e laureati di ogni genere, giornalisti professionisti, che esercitano il loro ruolo in un contesto di elevata industrializzazione ad alto contenuto tecnologico? È un altro mondo con un altro peso e lettura. Una volta qualcuno ha pensato bene che la Rai producesse bulloni. Magari ancora qualcuno lo pensa ancora.
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