mercoledì 11 ottobre 2023

Bloggorai e il dolore televisivo degli altri


Bloggorai si occupa di RAI, di Servizio Pubblico e quindi non è indifferente a quanto viene proposto dallo schermo dei suoi telegiornali e si chiede, spesso e volentieri, come e quanto le immagini proposte e diffuse, accuratamente selezionate e impaginate, possano contribuire a formare autonoma coscienza, capacità di analisi e comprensione, critica e confronto.

Il temine più usato in queste ore, in questi gironi, è “sorpresa”. Tutti a chiedersi come mai questa guerra è avvenuta sotto gli occhi di tutti senza che nessuno, apparentemente, ne avesse sentore. E' avvenuto lo stesso fenomeno con l'invasione russa dell'Ucraina. Ogni volta che succede, ogni qualvolta che “scoppia” una guerra sembra quasi che tutto avvenga per caso, per fatale combinazione di elementi imprevisti e sconosciuti. Le guerre, quali che esse siano, nel momento in cui scoppiano ed assumono tutta la loro plastica e drammatica rappresentazione televisiva, sembrano sempre scatenate da fattori anomali, virus fuori controllo che improvvisamente esplodono in tutta la loro violenza. Non è così e quanto succede in queste ore a Gaza, in tutta l’area interessata da questa nuova guerra, non è un “fenomeno” ne imprevisto ne sconosciuto nella sua potenziale devastazione. Era tutto scritto nei libri di storia contemporanea, e anche la “televisione” ne era ben consapevole di quanto sarebbe potuto avvenire ed è ora puntualmente avvenuto. Negli anni  scorsi (2015) Netflix ha mandato in onda una serie che ha avuto grande successo in tutto il mondo: Fauda (Caos). In quel racconto televisivo, in quella “narrazione” c’era già tutto: odio e vendetta, senza un inizio e senza una fine. Tutti, senza nessuna esclusione, hanno sempre saputo quanto era possibile sapere.

Ogni volta che succede, e succede sempre più spesso, che la cronaca contemporanea ci porta le immagini di guerra, di dolore e devastazione nelle nostre case attraverso al televisione, viene d’istinto riprendere in mano il preziosissimo libro di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri. Ha il grande pregio di riportarci ai primordi, alle caratteristiche primigenie della natura umana dove la guerra, l’esposizione o la visione dei corpi delle vittime militari o civili che siano, diventa essa stessa arma di combattimento. Ci aiuta a ricordare, banalmente e semplicemente, che la rappresentazione, o la “narrazione” come si usa tanto scrivere di questi tempi, del dolore proprio o meglio ancora degli altri è in grado di influire in modo rilevante sulla percezione dei conflitti. Le immagini servono sempre più spesso a spostare il baricentro dell’attenzione dalle cause originarie dei conflitti alle conseguenze che ne derivano. Un corpo di un civile inerme straziato dalle bombe non richiede didascalie: è sufficiente mostrarlo per suscitare indignazione e avversione. Il problema è sempre da che parte si pone l’obiettivo e quale uso viene fatto delle immagini.

La storia delle immagini di dolore e tragedia in conseguenza  delle guerre è piena di esempi. Ne ricordiamo una di particolare valore simbolico: l’ombra di Hiroshima. Alle 8.15 del 6 agosto 1945 una dona di42 anni era in attesa di entrare nella Banca Sumimoto mentre, in quell’istante, a poche centinaia di metri, esplode la Bomba atomica. Di lei è rimasta solo la sua ombra e l’immagine fotografica che la immortala.  Prima di allora, dalla guerra civile in Spagna (1936-39) con la fotografia e dopo con la guerra in Vietnam con le telecamere, le immagini diventano parte attiva del conflitto. Scrive la Sontag “Da allora, le battaglie e i massacri filmati mentre si svolgono sono divenuti un ingrediente abituale dell’incessante flusso di intrattenimento domestico”. Le riflessioni della Sontag si soffermano più sul carattere incisivo delle fotografie che operano sul profondo della coscienza e della memoria più di quanto invece sembrano operare le sequenze dinamiche. Le immagini video, lo streaming, invece tendono ad assumere un carattere più evanescente per la loro ininterrotta e devastante continuità. Eppure, sono le immagini dinamiche, televisive, quelle che sembrano assumere maggior rilievo “sociale” e quindi culturale e, infine, politico. La Sontag cita Walter Lippman: “Le fotografie hanno sull’immaginazione odierna lo stesso tipo di autorità che ieri aveva la parola stampata, e in precedenza aveva avuto la Parola detta. Sembrano del tutto reali”.

Oggi non sembra essere ancora emerso o  formulato un paradigma esaustivo di come e di quanto invece le immagini televisive, quelle che entrano nei telegiornali nelle edizioni più diffuse, contribuiscono ad alimentare o sostenere la formazione di una propria opinione individuale. I servizi, le sequenze più  orribili e  devastanti per le coscienze con lo sguardo inchiodato al presente e smemorato del passato non pongono domande e cercano risposte ma sostengono tesi. Non ci si chiede perché e come si è giunti a quel momento cristallizzato dalle telecamere ma ci si limita a far emergere il dolore e lo sconcerto, la rabbia e la paura, sentimenti facilmente manipolabili da una parte o dall’altra. Per buona parte, le immagini di dolore e tragedia sono necessarie solo a supportare, ad integrare un testo, una tesi, uno schieramento avverso all’altro. E chi ne detiene le leve decisionali sulla loro rilevanza, priorità o opportunità, chi organizza il palinsesto, chi impagina il giornale, non deve fare altro che metterle in ordine in relazione alla propria parte, al suo specifico  interesse geopolitico.

Bloggorai@gmail.com

ps: ieri sera si è svolta una serata televisiva di grande interesse: ne parleremo presto. 

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