E' trascorso poco tempo da quando si è placata la tempesta
nel bicchiere d’acqua di Viale Mazzini con le dimissioni presunte e poi
sconfessate di Salini eppure… i “corni non tontano”. Abbiamo approfittato di
questi giorni di tregua giornalistica per riflettere ulteriormente sull’unico
tema che ci interessa: il futuro del Servizio Pubblico (non della Rai o,
perlomeno, di questa Rai). Ieri sera ci è pervenuta una mail di un affezionato e qualificato lettore dove, in poche parole, ci riferiva del clima che regna a
Viale Mazzini in questi giorni che si può riassumere e ricondurre, pari pari,
allo stesso clima che si avverte nel quadro politico: vorrei ma non posso. I partiti che sorreggono
Conte vorrebbero sostituirlo con un leader più “politico” anche per depotenzializzarlo
in vista di una sua futura, possibile, “discesa in campo” in caso di elezioni.
Vorrebbero ma non possono: troppo rischioso in questo momento di crisi sociale
ed economica presentarsi al Paese con un carico di responsabilità che non
sarebbero in grado di gestire. E allora, tanto vale “tirare a Campari”. La vicenda
dell’AD, ci scrivono e ci confermano, puzza ancora di bruciato. Da tempo
pressoché tutti, interni ed esterni alla Rai, erano abbastanza convinti che
avrebbe lasciato e si facevano già i nomi delle possibili destinazioni (Netflix
e Fremantlee) come pure era partita con sospetta solerzia la gara al totonomine.
“Wishful thinking” ci raccontano dai vari piani di Viale Mazzini con
riferimento un po’ a tutti i citati candidati entranti o uscenti con il
sospetto che le “voci” fossero alimentate con maldestra sapienza comunicativa. La
sintesi, il finale di commedia, però ci dice altro: di questo Cda sembrano
pochi a volersene intestare una paternità che, di fatto, non ha portato a casa il
solo risultato possibile e necessario: il Piano industriale. Tutto il resto è acqua
fresca e, come abbiamo scritto e ripetuto più volte, il nemico è alle porte (risorse,
tecnologie, organizzazione etc).
A proposito di organizzazione, sempre nella giornata di ieri, in una amena chiacchierata
telefonica, ci dicono che dalla prossima settimana dovrebbero tornare in sede a
Viale Mazzini prima i dirigenti, poi i funzionari F0 e F1 e poi, ad ondate
successive e scaglionati gli impiegati. Unica certezza è che non potranno più esserci nello
stesso palazzo, nelle condizioni pre Covid, tutte le stesse persone con le medesime modalità organizzative e, per quanto sappiamo, si stanno cercano affannosamente
soluzioni alternative. Ad esempio, si potrebbe prendere la palla al balzo e
pensare a ristrutturare e/o bonificare dall’amianto residuo il palazzo con il cavallo
(a quanto sembra, si sta cercando una sede per contenere circa 500 persone
invece delle oltre 1000 attuali). Ma il tema che si fatica a tirare fuori è
semplice: cosa farne con le altre centinaia di persone? Tutte smart working? Il
ragionamento vale per tutta l’Azienda: ci sono in ballo oltre 13 mila dipendenti più altre migliaia di persone nell’indotto. Le prospettive economiche e le previsioni sui
conti non inducono a nessun ottimismo. Forse, anche per questo, la politica non
ha avuto la forza e il coraggio di
rimettere mano ad un rimescolamento di carte al Cda in questo momento con tali
prospettive. Chi se la prenderebbe ora una grana del genere sulle spalle?
Veniamo alle notizie del giorno. La prima è che la radio è tornata
ad essere centrale nel consumo mediatico degli italiani. Secondo una ricerca realizzata
da GFK per conto di TER (Tavolo Editori Radiofonici) con il ritorno della mobilità
degli italiani,in particolare in auto, è avvenuta una sostanziosa ripresa del mezzo
radiofonico. Ottima notizia che non si appaia invece con i risultati della televisione
che cominciano a dare segnali di ridimensionamento rispetto ai tre mesi
precedenti. La seconda notizia è che il TAR di Roma ha sospeso la multa a Rai e
rinviato il giudizio di merito al 2021 (geniale !!!!). Infine, la terza notizia, interessante, è che
ieri è stata presentata Vativision, la cosiddetta Netflix del Vaticano. Si tratta di una piattaforma ricca di contenuti
religiosi destinata al pubblico di fede cattolica e non solo. Benvenuti a
bordo!
Infine, vi proponiamo la lettura di un’intervista Giuseppe De Rita, sociologo e
Presidente del Censis, apparsa su Il Tempo.
Premesso che il sottoscritto appartiene orgogliosamente alla categoria che lamenta
proprio la carenza e la debolezza dell’analisi sociale del Covid, sottoscriviamo
buona parte del suo intervento e, in
particolare dove De Rita sostiene che “«Il punto è, se mi permette una distinzione, nella differenza tra il
comunicare e l'informare. Il Governo ha comunicato. L' informazione non c'è
stata. E naturalmente i mezzi di informazione hanno essi stessi
comunicato e non informato. Se uno pensa al fatto che giornalmente la
Protezione Civile dava il numero dei morti, dei guariti e dei contagiati, senza
mai una interpretazione, faceva solo comunicazione, non informava. Perché l'informazione è spiegare, è dare senso ai numeri”. Aggiunge poi ”Da quando negli
anni passati parlammo di rancore, beh il rancore si è molto smorzato. Perché il
rancore è un qualcosa che riguarda un sentimento di astio verso ciò che non c'
è stato. È il lutto di quel che non c'è stato. Quindi il rancore ha bisogno di
un colpevole. Il mio matrimonio è andato male, la colpa è di mia moglie. La mia
carriera in azienda è stata fermata, è colpa del capoufficio. La mia macchina
ha sbattuto, è colpa del meccanico che non mi ha risolto il problema alle
gomme. Il rancore aveva bisogno di colpevoli. Arriva il coronavirus e non si sa
chi sia il colpevole ed il rancore se ne va a pallino. Ed è sostituito dalla
paura. Da questa paura. La paura è un fenomeno meno spiegabile del rancore. Il
rancore si capisce da dove viene. La paura no. È incontrollabile, è
antropologica, la paura è una psicologia collettiva indecifrabile. E quindi la
paura ce la siamo tenuta. Io magari non ce l'ho ma la gente ha paura. Il tono
complessivo della paura è stato questo”.
«La politica ha
calcato troppo sulla paura durante i mesi più duri della pandemia? » “La
paura è venuta per ragioni di psicologia collettiva. Non credo ci sia qualcuno
che abbia complottato per mettere paura alla gente. Io ho visto che tutti quelli
che avevano paura ce l'avevano davvero non perché era indotta dalla
comunicazione. Era una paura antropologica e, a parte le zone rosse, non c' era
ragione. Penso a Roma, in
Basilicata, penso a Rieti, penso all'Umbria, la paura c'era eppure la situazione
dei morti non era certo come quella delle zone rosse. La paura è stata qualcosa
di indecifrabile e di non regolabile. Di non organizzabile. Ed allora si è
dovuto lasciarla andare. Più che incentivarla si è lasciata andare la paura. E
naturalmente la paura se la si lascia andare senza un contrasto agisce per
giorni, per mesi, per anni. Il fatto vero è che ad un certo punto poi la paura
è diventata, come succede sempre in questi casi, anche rabbia”. Grazie De Rita !!!
Provate ora a riportare questa riflessione a come è avvenuta
la comunicazione “sociale” del Servizio Pubblico, a quanto ha pesato nel sostenere
e diffondere sentimenti e sensazioni pauristici, spesso anche infondati. Ponetevi la domanda su quanto e come la Rai ha
“comunicato” e quanto invece ha “informato”.
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