venerdì 5 giugno 2020

Il Servizio Pubblico che vorrei ma non posso

Spero i lettori perdoneranno se oggi ci riprendiamo un po’ di spazio che abbiamo perso nei giorni scorsi. Mettetevi comodi.

E' trascorso poco tempo da quando si è placata la tempesta nel bicchiere d’acqua di Viale Mazzini con le dimissioni presunte e poi sconfessate di Salini eppure… i “corni non tontano”. Abbiamo approfittato di questi giorni di tregua giornalistica per riflettere ulteriormente sull’unico tema che ci interessa: il futuro del Servizio Pubblico (non della Rai o, perlomeno, di questa Rai). Ieri sera ci è pervenuta una mail di un affezionato e qualificato lettore dove, in poche parole, ci riferiva del clima che regna a Viale Mazzini in questi giorni che si può riassumere e ricondurre, pari pari, allo stesso clima che si avverte nel quadro politico: vorrei ma non posso. I partiti che sorreggono Conte vorrebbero sostituirlo con un leader più “politico” anche per depotenzializzarlo in vista di una sua futura, possibile, “discesa in campo” in caso di elezioni. Vorrebbero ma non possono: troppo rischioso in questo momento di crisi sociale ed economica presentarsi al Paese con un carico di responsabilità che non sarebbero in grado di gestire. E allora, tanto vale “tirare a Campari”. La vicenda dell’AD, ci scrivono e ci confermano, puzza ancora di bruciato. Da tempo pressoché tutti, interni ed esterni alla Rai, erano abbastanza convinti che avrebbe lasciato e si facevano già i nomi delle possibili destinazioni (Netflix e Fremantlee) come pure era partita con sospetta solerzia la gara al totonomine. “Wishful thinking” ci raccontano dai vari piani di Viale Mazzini con riferimento un po’ a tutti i citati candidati entranti o uscenti con il sospetto che le “voci” fossero alimentate con maldestra sapienza comunicativa. La sintesi, il finale di commedia, però ci dice altro: di questo Cda sembrano pochi a volersene intestare una paternità che, di fatto, non ha portato a casa il solo risultato possibile e necessario: il Piano industriale. Tutto il resto è acqua fresca e, come abbiamo scritto e ripetuto più volte, il nemico è alle porte (risorse, tecnologie, organizzazione etc). 

A proposito di organizzazione, sempre nella giornata di ieri, in una amena chiacchierata telefonica, ci dicono che dalla prossima settimana dovrebbero tornare in sede a Viale Mazzini prima i dirigenti, poi i funzionari F0 e F1 e poi, ad ondate successive e scaglionati gli impiegati. Unica certezza è che non potranno più esserci nello stesso palazzo, nelle condizioni pre Covid, tutte le stesse persone con le medesime modalità organizzative e, per quanto sappiamo, si stanno cercano affannosamente soluzioni alternative. Ad esempio, si potrebbe prendere la palla al balzo e pensare a ristrutturare e/o bonificare dall’amianto residuo il palazzo con il cavallo (a quanto sembra, si sta cercando una sede per contenere circa 500 persone invece delle oltre 1000 attuali). Ma il tema che si fatica a tirare fuori è semplice: cosa farne con le altre centinaia di persone? Tutte smart working? Il ragionamento vale per tutta l’Azienda: ci sono in ballo oltre 13 mila dipendenti più altre migliaia di persone nell’indotto.  Le prospettive economiche e le previsioni sui conti non inducono a nessun ottimismo. Forse, anche per questo, la politica non ha avuto la forza e il coraggio di rimettere mano ad un rimescolamento di carte al Cda in questo momento con tali prospettive. Chi se la prenderebbe ora una grana del genere sulle spalle?

Veniamo alle notizie del giorno. La prima è che la radio è tornata ad essere centrale nel consumo mediatico degli italiani. Secondo una ricerca realizzata da GFK per conto di TER (Tavolo Editori Radiofonici) con il ritorno della mobilità degli italiani,in particolare in auto, è avvenuta una sostanziosa ripresa del mezzo radiofonico. Ottima notizia che non si appaia invece con i risultati della televisione che cominciano a dare segnali di ridimensionamento rispetto ai tre mesi precedenti. La seconda notizia è che il TAR di Roma ha sospeso la multa a Rai e rinviato il giudizio di merito al 2021 (geniale !!!!).  Infine, la terza notizia, interessante, è che ieri è stata presentata Vativision, la cosiddetta Netflix del Vaticano. Si tratta di una piattaforma ricca di contenuti religiosi destinata al pubblico di fede cattolica e non solo. Benvenuti a bordo!

Infine, vi proponiamo la lettura di un’intervista Giuseppe De Rita, sociologo e Presidente del Censis, apparsa su Il Tempo. Premesso che il sottoscritto appartiene orgogliosamente alla categoria che lamenta proprio la carenza e la debolezza dell’analisi sociale del Covid, sottoscriviamo buona parte del suo  intervento e, in particolare dove De Rita sostiene che “«Il punto è, se mi permette una distinzione, nella differenza tra il comunicare e l'informare. Il Governo ha comunicato. L' informazione non c'è stata. E naturalmente i mezzi di informazione hanno essi stessi comunicato e non informato. Se uno pensa al fatto che giornalmente la Protezione Civile dava il numero dei morti, dei guariti e dei contagiati, senza mai una interpretazione, faceva solo comunicazione, non informava. Perché l'informazione è spiegare, è dare senso ai numeri”. Aggiunge poi ”Da quando negli anni passati parlammo di rancore, beh il rancore si è molto smorzato. Perché il rancore è un qualcosa che riguarda un sentimento di astio verso ciò che non c' è stato. È il lutto di quel che non c'è stato. Quindi il rancore ha bisogno di un colpevole. Il mio matrimonio è andato male, la colpa è di mia moglie. La mia carriera in azienda è stata fermata, è colpa del capoufficio. La mia macchina ha sbattuto, è colpa del meccanico che non mi ha risolto il problema alle gomme. Il rancore aveva bisogno di colpevoli. Arriva il coronavirus e non si sa chi sia il colpevole ed il rancore se ne va a pallino. Ed è sostituito dalla paura. Da questa paura. La paura è un fenomeno meno spiegabile del rancore. Il rancore si capisce da dove viene. La paura no. È incontrollabile, è antropologica, la paura è una psicologia collettiva indecifrabile. E quindi la paura ce la siamo tenuta. Io magari non ce l'ho ma la gente ha paura. Il tono complessivo della paura è stato questo”.
«La politica ha calcato troppo sulla paura durante i mesi più duri della pandemia? » “La paura è venuta per ragioni di psicologia collettiva. Non credo ci sia qualcuno che abbia complottato per mettere paura alla gente. Io ho visto che tutti quelli che avevano paura ce l'avevano davvero non perché era indotta dalla comunicazione. Era una paura antropologica e, a parte le zone rosse, non c' era ragione. Penso a Roma, in Basilicata, penso a Rieti, penso all'Umbria, la paura c'era eppure la situazione dei morti non era certo come quella delle zone rosse. La paura è stata qualcosa di indecifrabile e di non regolabile. Di non organizzabile. Ed allora si è dovuto lasciarla andare. Più che incentivarla si è lasciata andare la paura. E naturalmente la paura se la si lascia andare senza un contrasto agisce per giorni, per mesi, per anni. Il fatto vero è che ad un certo punto poi la paura è diventata, come succede sempre in questi casi, anche rabbia”. Grazie De Rita !!!

Provate ora a riportare questa riflessione a come è avvenuta la comunicazione “sociale” del Servizio Pubblico, a quanto ha pesato nel sostenere e diffondere sentimenti e sensazioni pauristici, spesso anche infondati.  Ponetevi la domanda su quanto e come la Rai ha “comunicato” e quanto invece ha “informato”.
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