martedì 30 giugno 2020

Grande disordine sotto il cielo


Mettiamo subito le cose in chiaro. La sola possibilità che il Consiglio di amministrazione Rai possa essere prorogato o meno si dovrebbe contemplare negli art. 45 e 46 del TUSMAR e poi nella Legge 220 del 2015. La nomina di quattro componenti del Cda è di esclusiva prerogativa di Camera e Senato, il quinto è eletto dai dipendenti e gli altri due sono di fonte governativa. Non ci sono dubbi di interpretazione o aggiornamento discrezionale, a meno che qualcuno non possa immaginare di modificare la Legge “in corso d’opera”. Operazione sempre possibile ma, in verità, assai ardua e ancor più n questo momento delicato. Ora che l’AD si possa essere incontrato o meno con il Capo del Governo Conte e possa aver discusso della possibile proroga del CdA appare ai limiti dell’offensivo e inverosimile. Tant’è che nessuno si azzarda a smentire o confermare. Lo è ancora di più se si deve poi constatare che nessuno si arrischia a motivare questa ipotesi. Per quale motivo dovrebbe avvenire tutto questo? Proviamo ad immaginare: perché i conti previsionali della Rai sono ai limiti della zona rossa dei libri in Tribunale? Possibile. Perché si vorrebbe provare a dare forma al punto del programma di Governo che prevede la riforma dell’intero sistema delle TLC? Probabile. Perché siamo alla vigilia dell’appuntamento istituzionale più rilevante della vita del Paese come l’elezione del Presidente della Repubblica e quindi si vorrebbe “garantire” una specie di stabilità televisiva? Futuribile.

Rimangono alcuni punti fermi. Il quadro politico è altamente instabile e a continuo rischio di rottura. Qualsiasi ipotesi di cambiamento richiede forza e lucidità che, invece, sembrano mancare in quasi tutte le parti in causa (centro destra compreso). Nessuno tra i partiti di maggioranza e opposizione, salvo la vecchia proposta formulata da Fico, ha qualche briciola di idea di come debba o possa essere riformato il sistema delle telecomunicazioni, figuriamoci la Rai. In questo contesto, come è possibile che a qualcuno possa essere venuto  in mente di: A) concordare un incontro Salini e Conte B) far trapelare i contenuti del presunto incontro riferiti alla proroga del mandato e all’aggiustamento del mercato pubblicitario (vedi post dei giorni scorsi) C) supporre che una operazione del genere potesse passare inosservata o sottovalutata nella sua rilevanza da tutti gli interessati e, in particolare dal PD che ancora vede Salini come braccio armato del vecchio accordo Di Maio-Salvini  ??? Misteri della Fede perché solo quella potrebbe aiutare a capire l’indecifrabile mistero che avvolge il fumo di queste alchimie politiche. Rimane, semplicemente, la battuta romana: “nun se po fa … metteteve l’anima in pace … nun se po fa” . Per essere più chiari: le alchimie si capiscono benissimo solo che non sempre riescono.

Chiudiamo il tema. Siamo convinti e non da ora che vada ripensato tutto il perimetro del Servizio Pubblico radiotelevisivo, nei suoi pilastri fondamentali: anzitutto la sua missione, poi la governance, le risorse e le tecnologie. Non riteniamo possibile un processo di riforma a singhiozzo o a spezzatino: questi pilastri sono saldamente connessi tra loro, toccarne uno e lasciare invariati gli altri rischia di compromettere tutta la stabilità. Sembra banale ribadirlo ma, evidentemente, a qualcuno piace pensare che un pezzetto alla volta si possa aggiustare tutto.  

Un passo indietro a ieri. Il Corriere ha pubblicato una pagina intera, firmata da Massimo Scaglioni, dedicata ai nuovi modelli di consumo televisivo: ”Boom della tv in streaming. Un miliardo e 300 milioni di consumi on line a marzo: l'impennata delle visualizzazioni durante il lockdown. La Total Audience fornisce un quadro sempre più rilevante per tutto il mercato undici miliardi di stream in un anno, quasi 900 milioni al mese, e un picco col lockdown di marzo: chiusi nelle loro abitazioni, gli italiani hanno guardato oltre un miliardo e 300 milioni di contenuti televisivi on line in trenta giorni. Il confinamento dovuto al Coronavirus ha fatto segnare un record non solamente al consumo di tv tradizionale, quella guardata attraverso il teleschermo di casa. Gli italiani hanno scoperto il piacere della tv in streaming, sia live, in contemporanea con la messa in onda, sia soprattutto on demand, attraverso apparecchi come tablet, smartphone, pc e smart tv (oggetto di una vera e propria «scoperta» nelle settimane della quarantena). Sono questi i principali risultati di una ricerca condotta su un anno di Auditel digitale”. Dettaglio: Canale5 stacca RaiUno di tanti punti. Il tema rimane una modalità di fruizione dei prodotti audiovisivi che si diversifica progressivamente dal tradizionale digitale terrestre e questo processo si innesta proprio nella fase di transizione, delicata e complessa, verso il DVB-T2  dove se già la situazione era preoccupante prima del Coronavirus ora lo è ancora di più.

Da leggere attentamente l’intervista a Paolo Bassetti, CEO di Banijay (“Con Endemol fate il 69% delle produzioni Rai, 1923 ore di trasmissioni”), sul Messaggero di oggi: “Ciclicamente si parla di una Rai senza pubblicità: è un'ipotesi praticabile? «Solo aumentando il canone, ma è impopolare. La Rai ha il canone più basso fra i maggiori paesi europei, a fronte del primato degli indici di ascolto. Se si levano 600 milioni di pubblicità e se ne recuperano 150 con il canone, senza un piano di ristrutturazione, come si colmerà il gap? Senza queste entrate la Rai produrrà meno. E crescerà la disoccupazione nel settore. Non sono tra quelli che pensano che una Rai senza pubblicità possa favorire qualche editore». E allora? «Si andrebbe verso un felice declino, come nel Paese”. Tutto chiaro?

Infine, da segnalare e incorniciare, un articolo a firma Francesco Ninfole, su MF: “Sul digitale Italia agli ultimi posti in Europa. In tempi di Stati Generali e riflessioni sul futuro dell'economia italiana possono far riflettere i dati contenuti in un rapporto pubblicato ieri dalla Bce sul grado di digitalizzazione nei Paesi Ue. In questo ambito l'Italia figura agli ultimi posti nelle principali classifiche, con ampio distacco dagli altri grandi Stati europei. Il Paese per esempio è quintultimo nell'indice Desi (Digital Economy and Society Index 2019) della Commissione Ue, che misura in una scala da 0 a 100 la connettività attraverso banda larga, competenze digitali del capitale umano, uso di internet, integrazione della tecnologia e servizi pubblici digitali. L'Italia è poco sopra quota 40, su livelli superiori soltanto a quelli di Bulgaria, Romania, Grecia e Polonia. La media europea è 55: Francia, Germania e Spagna sono attorno a questo valore, mentre i Paesi nordici sono vicini a 70. L'Italia è indietro anche in termini di peso del valore aggiunto di prodotti e servizi legati al digitale (5% del totale). Anche in questa classifica è al quintultimo posto, davanti a Grecia, Portogallo, Lituania e Belgio, mentre la media Ue è del 6,5%”. Meditate gente…meditate…

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