Mettiamo subito le cose in chiaro. La sola possibilità che
il Consiglio di amministrazione Rai possa essere prorogato o meno si dovrebbe
contemplare negli art. 45 e 46 del TUSMAR e poi nella Legge 220 del 2015. La nomina
di quattro componenti del Cda è di esclusiva prerogativa di Camera e Senato, il
quinto è eletto dai dipendenti e gli altri due sono di fonte governativa. Non ci
sono dubbi di interpretazione o aggiornamento discrezionale, a meno che qualcuno non possa immaginare
di modificare la Legge “in corso d’opera”. Operazione sempre possibile ma, in
verità, assai ardua e ancor più n questo momento delicato. Ora che l’AD si
possa essere incontrato o meno con il Capo del Governo Conte e possa aver discusso
della possibile proroga del CdA appare ai limiti dell’offensivo e inverosimile.
Tant’è che nessuno si azzarda a smentire o confermare. Lo è ancora di più se si
deve poi constatare che nessuno si arrischia a motivare questa ipotesi. Per quale
motivo dovrebbe avvenire tutto questo? Proviamo ad immaginare: perché i conti previsionali
della Rai sono ai limiti della zona rossa dei libri in Tribunale? Possibile. Perché
si vorrebbe provare a dare forma al punto del programma di Governo che prevede
la riforma dell’intero sistema delle TLC? Probabile. Perché siamo alla vigilia dell’appuntamento
istituzionale più rilevante della vita del Paese come l’elezione del Presidente
della Repubblica e quindi si vorrebbe “garantire” una specie di stabilità
televisiva? Futuribile.
Rimangono alcuni punti fermi. Il quadro politico è altamente
instabile e a continuo rischio di rottura. Qualsiasi ipotesi di cambiamento
richiede forza e lucidità che, invece, sembrano mancare in quasi tutte le parti
in causa (centro destra compreso). Nessuno tra i partiti di maggioranza e
opposizione, salvo la vecchia proposta formulata da Fico, ha qualche briciola
di idea di come debba o possa essere riformato il sistema delle telecomunicazioni,
figuriamoci la Rai. In questo contesto, come è possibile che a qualcuno possa
essere venuto in mente di: A) concordare
un incontro Salini e Conte B) far trapelare i contenuti del presunto incontro riferiti
alla proroga del mandato e all’aggiustamento del mercato pubblicitario (vedi
post dei giorni scorsi) C) supporre che una operazione del genere potesse passare
inosservata o sottovalutata nella sua rilevanza da tutti gli interessati e, in particolare
dal PD che ancora vede Salini come braccio armato del vecchio accordo Di
Maio-Salvini ??? Misteri della Fede perché
solo quella potrebbe aiutare a capire l’indecifrabile mistero che avvolge il
fumo di queste alchimie politiche. Rimane, semplicemente, la battuta romana: “nun
se po fa … metteteve l’anima in pace … nun se po fa” . Per essere più chiari:
le alchimie si capiscono benissimo solo che non sempre riescono.
Chiudiamo il tema. Siamo convinti e non da ora che vada
ripensato tutto il perimetro del Servizio Pubblico radiotelevisivo, nei suoi pilastri
fondamentali: anzitutto la sua missione, poi la governance, le risorse e le tecnologie. Non riteniamo possibile
un processo di riforma a singhiozzo o a spezzatino: questi pilastri sono
saldamente connessi tra loro, toccarne uno e lasciare invariati gli altri
rischia di compromettere tutta la stabilità. Sembra banale ribadirlo ma, evidentemente, a qualcuno piace pensare che un pezzetto alla volta si possa aggiustare
tutto.
Un passo indietro a ieri. Il Corriere ha pubblicato una
pagina intera, firmata da Massimo Scaglioni, dedicata ai nuovi modelli di
consumo televisivo: ”Boom della tv in streaming. Un miliardo e 300 milioni di
consumi on line a marzo: l'impennata delle visualizzazioni durante il lockdown.
La Total Audience fornisce un quadro sempre più rilevante per tutto il mercato undici
miliardi di stream in un anno, quasi 900 milioni al mese, e un picco col
lockdown di marzo: chiusi nelle loro abitazioni, gli italiani hanno guardato
oltre un miliardo e 300 milioni di contenuti televisivi on line in trenta
giorni. Il confinamento dovuto al Coronavirus ha fatto segnare un record non
solamente al consumo di tv tradizionale, quella guardata attraverso il
teleschermo di casa. Gli italiani hanno scoperto il piacere della tv in
streaming, sia live, in contemporanea
con la messa in onda, sia soprattutto on demand, attraverso apparecchi come
tablet, smartphone, pc e smart tv (oggetto di una vera e propria «scoperta»
nelle settimane della quarantena). Sono questi i principali risultati di una
ricerca condotta su un anno di Auditel digitale”. Dettaglio: Canale5 stacca RaiUno di tanti punti. Il tema rimane
una modalità di fruizione dei prodotti audiovisivi che si diversifica progressivamente
dal tradizionale digitale terrestre e questo processo si innesta proprio nella
fase di transizione, delicata e complessa, verso il DVB-T2 dove se già la situazione era preoccupante
prima del Coronavirus ora lo è ancora di più.
Da leggere attentamente l’intervista a Paolo Bassetti, CEO
di Banijay (“Con Endemol fate il 69% delle produzioni Rai, 1923 ore di
trasmissioni”), sul Messaggero di oggi: “Ciclicamente si parla di una Rai senza
pubblicità: è un'ipotesi praticabile? «Solo aumentando il canone, ma è
impopolare. La Rai ha il canone più basso fra i maggiori paesi europei, a
fronte del primato degli indici di ascolto. Se si levano 600 milioni di
pubblicità e se ne recuperano 150 con il canone, senza un piano di
ristrutturazione, come si colmerà il gap? Senza queste entrate la Rai produrrà
meno. E crescerà la disoccupazione nel settore. Non sono tra quelli che pensano
che una Rai senza pubblicità possa favorire qualche editore». E allora? «Si
andrebbe verso un felice declino, come nel Paese”. Tutto chiaro?
Infine, da segnalare e incorniciare, un articolo a firma Francesco
Ninfole, su MF: “Sul digitale Italia agli ultimi posti in Europa. In tempi di
Stati Generali e riflessioni sul futuro dell'economia italiana possono far
riflettere i dati contenuti in un rapporto pubblicato ieri dalla Bce sul grado
di digitalizzazione nei Paesi Ue. In questo ambito l'Italia figura agli ultimi posti nelle principali classifiche,
con ampio distacco dagli altri grandi Stati europei. Il Paese per esempio è
quintultimo nell'indice Desi (Digital Economy and Society Index 2019) della
Commissione Ue, che misura in una scala da 0 a 100 la connettività attraverso
banda larga, competenze digitali del capitale umano, uso di internet,
integrazione della tecnologia e servizi pubblici digitali. L'Italia è poco
sopra quota 40, su livelli superiori soltanto a quelli di Bulgaria, Romania,
Grecia e Polonia. La media europea è 55: Francia, Germania e Spagna sono
attorno a questo valore, mentre i Paesi nordici sono vicini a 70. L'Italia è
indietro anche in termini di peso del valore aggiunto di prodotti e servizi
legati al digitale (5% del totale). Anche in questa classifica è al quintultimo
posto, davanti a Grecia, Portogallo, Lituania e Belgio, mentre la media Ue è
del 6,5%”. Meditate gente…meditate…
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