Dunque la partita di ieri si è chiusa con l’Ad che incassa la nomina di Rao e si prende tre voti contrari (Di Majo, Bria e Laganà) e già questo è un problemino. Abbiamo provato ad immaginare cosa si può provare quando succede una cosa del genere. Potrebbe vagamente somigliare ad una discussione di condominio dove avviene che la metà del palazzo è contraria a ridipingere la facciata. Buon senso vorrebbe che la decisione venga rinviata e il problema approfondito e invece no: l’amministratore si schiera con una sola parte e perché così gli conviene (si verrà poi a sapere che aveva concordato già tutto con una ditta di manutenzione di facciate). Morale. La facciata si farà ma la metà dei condomini pongono un problema: come è stata scelta la ditta? È stata fatta una gara? Con quali criteri si è aggiudicata il lavoro? Silenzio. Nulla è dato sapere. O meglio, sappiamo tutto benissimo e anche molto bene. Possiamo solo immaginare che l’amministratore si potrebbe essere innervosito. Si capisce.
Tornano a Viale Mazzini. Il tema dietro il quale i leoni della maggioranza del Cda si sono schierati è il criterio del “pluralismo”. Interessante, merita una rapida riflessione. Cosa è e come si esercita? Nel lessico governativo potrebbe significare che ogni testata giornalistica, ogni rete, dovrebbe riflettere la composizione anzitutto del governo e poi degli altri partiti in quota parte rispetto alla loro rappresentanza parlamentare. Con questo criterio, ad ogni cambio di equilibrio politico e sociale ci dovrebbe essere un specie di aggiornamento automatico, di default. Quando non lo fa, sua sponte, il Cda, interviene Palazzo Chigi con “sussurri e suggerimenti” e giunge allora il barrito dei leoni con “obbedisco!”. C’è poi un altro lessico possibile dove si può intendere “pluralismo” inteso in altro modo, oltre e al di fuori dalla “quota” di appartenenza partitica della singola persona che lo esercita correttamente nell’esercizio delle sue funzioni. Si può essere “pluralisti” anche se in tasca si possiede una tessera del PD o di FdI ? Forse si e comunque si potrebbe valutare se esistono i presupposti di autonomia e indipendenza. Ad esempio uno dei presupposti “ad escludendum” potrebbe essere proprio la percezione pubblica e palese di appartenere ad una “quota” quale che sia il partito che la esprime .
Questa è la guerra fondamentale di cultura del servizio Pubblico difficile da vincere perché questo virus malefico della spartizione partitica si annida nel profondo, è trasversale e colpisce indiscriminatamente chi ne è più sensibile.
È forse proprio il tema della “cultura” ovvero della sua natura e della missione del Servizio Pubblico che non si riesce ad affrontare e forse non si vuole. Nella scorse legislatura ben 7 (2 dei quali 2 del PD) progetti di riforma della Govenance Rai sono rimasti sepolti nel cassetto senza che una maggioranza di governo, che pure c’era, riuscisse a portarne avanti almeno un pezzo. Non si vuole affrontare semplicemente il problema del suo futuro perché ormai si da per scontato che per la Rai sarà piccolo e modesto. Potrà forse sopravvivere ai vari Netflix e Amazon ma in una nicchia residuale con pochi mezzi economici e con ascolti sempre più orientati ad un pubblico over ’60 emarginati dal broadband e confinati nel pleistocene del broadcast digitale terrestre. La BBC ci sta pensando da oltre 10 anni. Va bene così, per molti va benissimo così perché, ad esempio, in tal modo quel poco che rimane da raschiare di pubblicità verrà dirottato altrove. Vedi quanto abbiamo letto ieri su Italia Oggi: gli investimenti pubblicitari in televisione, 2021 su 2022, calano per la Rai del 17% e per Mediaset del 2%. Di questo passo e con questa progressione, si dovrà aumentare il canone per garantire lo stipendio agli oltre 12 mila dipendenti.
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