sabato 18 luglio 2020

I palinsesti, le lacrime e il sangue della Rai

Nessuno può dire che la Rai non proponga un’offerta editoriale varia nei generi, di qualità nei contenuti e di diffusione nelle diverse piattaforme. Lo ha fatto da sempre nella sua storia  e, speriamo, possa continuare a farlo nel suo futuro: non  sono mai mancati programmi e proposte sempre di alto livello e comunque sempre di soggetti che la televisione commerciale non si sogna lontanamente di mandare in onda, per sua natura e cultura. Tutto questo però non è sufficiente per comprendere il percorso da proseguire e dove questo possa portare il Servizio Pubblico.

Nel sommario della cartella stampa distribuita in occasione della presentazione dei palinsesti Rai non compare il capitolo “intrattenimento”. Per un verso è corretto in quanto non rappresenta una “direzione” o una struttura di produzione. Per altro verso, rappresenta un genere che gode di molta fortuna nel Servizio pubblico e ancora più in quello privato. Tant’è che, con buona pace di chi è interessato a tutt’altri generi, la “narrazione televisiva” si concentra su questo tipo di prodotto e, ancora di più, se all’intrattenimento viene associata l’informazione: infotainment. Prendiamo spunto da una nota a firma Antonio Dipollina su Repubblica di oggi dal titolo “Il successo del reality Temptation nel deserto dell'altra tv” per andare, sempre a palle incatenate, a cercare di inchiodare le responsabilità di chi gestisce l’Azienda di Servizio Pubblico radiotelevisivo. Leggiamo: “Temptation Island tecnicamente un docureality, che su Canale 5 anche l'altra sera è andato verso i 4 milioni di spettatori e il 24% di share. Appunto, è una proposta fresca — per quanto registratissima — e inedita per queste serate: fa il pieno di tutto il pubblico di riferimento e si piazza esattamente all'incrocio tra ultrapop, narrazioni basiche di sentimenti tritati all'inverosimile, bailamme sui social, commenti su commenti per censurare o esaltare le gesta dei protagonisti”.

Allora, i temi sono il deserto della proposta editoriale, le icone del nostro tempo televisivo, la pubblicità e il ruolo, appunto del Servizio Pubblico.

In un certo senso ha ragione Dipollina, i vari programmi come Temtaption Island, L’isola di famosi, Ciao Darwin, Tu si que vales, La pupa e il secchione (tutto Mediaset) occupano con successo esattamente quel vuoto che si determina quando i palinsesti delle altre reti non offrono di meglio. Conosciamo bene alcuni “polli” di Viale Mazzini e sappiamo bene quanto ad alcuni di loro piacerebbe razzolare in quel campo e quanto ad altri a loro vicini (e complici… gli agenti) sguazzerebbero volentierissimo in quel pollaio se pure la Rai potesse fare qualcosa che gli somiglia. Provate ad immaginare la goduria dei vari Presta, Caschetto, Ercolani, Ballandi, Banijay e compagnia cantando che potrebbero fare compagnia di giro con i loro protetti tra una rete e l’altra, tra un canale e l’altro, tra un programma e l’altro. 

In Rai qualcuno si consola con altro genere di infotainment dove il tema non è solo e tanto il contenuto, la struttura narrativa, ma  chi lo conduce e se questi appartiene o meno ad una corrente di partito in auge nello specifico momento in cui vengono presentai i palinsesti. Di questo si parla (vedi stamattina Roselli sul fatto). Ora la domanda ormai stantia è: fino a che punto la Rai deve rincorrere Mediaset su questi terreni, fino a che punto deve alimentare e foraggiare, direttamente o indirettamente, questi pollai? E veniamo all’attualità: la Regina, l’icona, la sintesi televisiva di tutto questo ed altro ancora si chiama, appunto, Maria De Filippi. Con tutto il rispetto che merita e la simpatia di cui può godere nel grande pubblico, lo scandalo della sua presenza in prima serata su Rai Uno non è solo e tanto nel fatto che non siano state valorizzate “risorse interne” quanto nel fatto che si alimenta una sorta di “ibridazione” di genere tra televisione pubblica e commerciale. La sua presenza incrementa, come già avvenuto in precedenti occasioni e pure con altri personaggi, il pensiero sublime (o subliminale) che la “televisione” è un fritto misto dove c’è “posta (o) per tutti” e ognuno concorre a far girare la stessa trottola.

Nei giorni scorsi, durante un raffinato ed accademico dibattito tra persone colte e sofisticate (!!!), ci si chiedeva perché la vicenda delle corna tra Belen e il suo fidanzato riscuotessero tanta attenzione mediatica (al pari di altre edificanti vicende di cronaca gossippara), la risposta è sempre molto semplice e chiara: tutto concorre a spargere concime nel pollaio e a far crescere polli e galline. Notoriamente, il vuoto non esiste in natura, figuriamoci in televisione.

E veniamo agli allegati connessi: il circo Barnum della televisione costa a tutti. A chi la produce e a chi la consuma. Si tratta di un biglietto che è necessario staccare per poter assistere allo spettacolo e la pubblicità che, in particolare in questo momento, è scarsa e non sufficiente per tutti.

Per la Rai, per quanto sappiamo, i tempi si prospettano assai duri: lacrime e sangue all’orizzonte. I risultati economici per l’anno corrente prevedono una perdita di circa 50 mln di euro (compresi i 10 di mancati introiti dei canoni speciali, anche a causa del Coronavirus). Per il prossimo anno i numeri sono impressionanti: si mette in conto una perdita secca di circa 210 mln al netto di riduzioni sui ricavi da canone e da pubblicità dove si prevede una riduzione rispetto all’anno precedente di poco meno di 100 mln. Il tema che si porrà agli amministratori di Viale Mazzini, quelli di oggi e quelli di domani, sarà la posizione finanziaria netta, a quanto ammonterà e per quanto le banche saranno disposte a sostenere il credito all’Azienda. In questa contabilità, al momento, non si tiene conto delle minacce "politiche" di riduzione del canone semprre presenti aall'interno del Governo.

Risparmiare, ottimizzare, rendere più efficiente e produttiva la macchina aziendale in tutti i suoi aspetti (come peraltro previsto dal Piano Industriale ora in naftalina) è una leva strategica che non si riesce a rilevare dai programmi presentati. Quanto costano nel loro complesso e quanto rendono? Non solo dal punto di vista strettamente economico, ma anche da quello sociale e culturale: quanto costa e quanto rende alimentare il sottofondo percettivo del Servizio Pubblico sempre più simile alla televisione commerciale?

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