Nessuno può dire che
la Rai non proponga un’offerta editoriale varia nei generi, di qualità nei contenuti e di diffusione nelle diverse piattaforme. Lo ha fatto da sempre nella sua storia e, speriamo, possa continuare
a farlo nel suo futuro: non sono mai
mancati programmi e proposte sempre di alto livello e comunque sempre di
soggetti che la televisione commerciale non si sogna lontanamente di mandare in
onda, per sua natura e cultura. Tutto questo però non è sufficiente per
comprendere il percorso da proseguire e dove questo possa portare il Servizio
Pubblico.
Nel sommario della cartella stampa distribuita in occasione
della presentazione dei palinsesti Rai non compare il capitolo “intrattenimento”.
Per un verso è corretto in quanto non rappresenta una “direzione” o una
struttura di produzione. Per altro verso, rappresenta un genere che gode di
molta fortuna nel Servizio pubblico e ancora più in quello privato. Tant’è che,
con buona pace di chi è interessato a tutt’altri generi, la “narrazione televisiva”
si concentra su questo tipo di prodotto e, ancora di più, se all’intrattenimento viene
associata l’informazione: infotainment. Prendiamo spunto da una nota a firma Antonio
Dipollina su Repubblica di oggi dal titolo “Il successo del reality Temptation
nel deserto dell'altra tv” per andare, sempre a palle incatenate, a cercare di
inchiodare le responsabilità di chi gestisce l’Azienda di Servizio Pubblico
radiotelevisivo. Leggiamo: “Temptation Island tecnicamente un docureality, che
su Canale 5 anche l'altra sera è andato verso i 4 milioni di spettatori e il 24%
di share. Appunto, è una proposta fresca — per quanto registratissima — e
inedita per queste serate: fa il pieno di tutto il pubblico di riferimento e si
piazza esattamente all'incrocio tra ultrapop, narrazioni basiche di sentimenti
tritati all'inverosimile, bailamme sui social, commenti su commenti per
censurare o esaltare le gesta dei protagonisti”.
Allora, i temi sono il deserto della proposta editoriale, le
icone del nostro tempo televisivo, la pubblicità e il ruolo, appunto del Servizio
Pubblico.
In un certo senso ha ragione Dipollina, i vari programmi
come Temtaption Island, L’isola di famosi, Ciao Darwin, Tu si que vales, La
pupa e il secchione (tutto Mediaset) occupano con successo esattamente quel
vuoto che si determina quando i palinsesti delle altre reti non offrono di meglio.
Conosciamo bene alcuni “polli” di Viale Mazzini e sappiamo bene quanto ad
alcuni di loro piacerebbe razzolare in quel campo e quanto ad altri a loro
vicini (e complici… gli agenti) sguazzerebbero volentierissimo in quel pollaio
se pure la Rai potesse fare qualcosa che gli somiglia. Provate ad immaginare la
goduria dei vari Presta, Caschetto, Ercolani, Ballandi, Banijay e compagnia cantando
che potrebbero fare compagnia di giro con i loro protetti tra una rete e l’altra,
tra un canale e l’altro, tra un programma e l’altro.
In Rai qualcuno si consola con altro genere di infotainment
dove il tema non è solo e tanto il contenuto, la struttura narrativa, ma chi lo conduce e se questi appartiene o meno
ad una corrente di partito in auge nello specifico momento in cui vengono
presentai i palinsesti. Di questo si parla (vedi stamattina Roselli sul fatto).
Ora la domanda ormai stantia è: fino a che punto la Rai deve rincorrere
Mediaset su questi terreni, fino a che punto deve alimentare e foraggiare,
direttamente o indirettamente, questi pollai? E veniamo all’attualità: la Regina, l’icona, la sintesi televisiva di tutto questo ed altro ancora
si chiama, appunto, Maria De Filippi. Con tutto il rispetto che merita e la
simpatia di cui può godere nel grande pubblico, lo scandalo della sua presenza
in prima serata su Rai Uno non è solo e tanto nel fatto che non siano state valorizzate
“risorse interne” quanto nel fatto che si alimenta una sorta di “ibridazione”
di genere tra televisione pubblica e commerciale. La sua presenza incrementa,
come già avvenuto in precedenti occasioni e pure con altri personaggi, il
pensiero sublime (o subliminale) che la “televisione” è un fritto misto dove c’è
“posta (o) per tutti” e ognuno concorre a far girare la stessa trottola.
Nei giorni scorsi, durante un raffinato ed accademico dibattito
tra persone colte e sofisticate (!!!), ci si chiedeva perché la vicenda delle
corna tra Belen e il suo fidanzato riscuotessero tanta attenzione mediatica (al
pari di altre edificanti vicende di cronaca gossippara), la risposta è sempre
molto semplice e chiara: tutto concorre a spargere concime nel pollaio e a far
crescere polli e galline. Notoriamente, il vuoto non esiste in natura, figuriamoci
in televisione.
E veniamo agli allegati connessi: il circo Barnum della
televisione costa a tutti. A chi la produce e a chi la consuma. Si tratta di un
biglietto che è necessario staccare per poter assistere allo spettacolo e la
pubblicità che, in particolare in questo momento, è scarsa e non sufficiente per
tutti.
Per la Rai, per quanto sappiamo, i tempi si prospettano assai
duri: lacrime e sangue all’orizzonte. I risultati economici per l’anno corrente
prevedono una perdita di circa 50 mln di euro (compresi i 10 di mancati introiti
dei canoni speciali, anche a causa del Coronavirus). Per il prossimo anno i
numeri sono impressionanti: si mette in conto una perdita secca di circa 210
mln al netto di riduzioni sui ricavi da canone e da pubblicità dove si prevede
una riduzione rispetto all’anno precedente di poco meno di 100 mln. Il tema che si porrà agli amministratori di Viale Mazzini, quelli di oggi e quelli di domani, sarà
la posizione finanziaria netta, a quanto ammonterà e per quanto le banche
saranno disposte a sostenere il credito all’Azienda. In questa contabilità, al momento, non si tiene conto delle minacce "politiche" di riduzione del canone semprre presenti aall'interno del Governo.
Risparmiare, ottimizzare, rendere più efficiente e
produttiva la macchina aziendale in tutti i suoi aspetti (come peraltro previsto
dal Piano Industriale ora in naftalina) è una leva strategica che non si riesce
a rilevare dai programmi presentati. Quanto costano nel loro complesso e quanto
rendono? Non solo dal punto di vista strettamente economico, ma anche da quello
sociale e culturale: quanto costa e quanto rende alimentare il sottofondo
percettivo del Servizio Pubblico sempre più simile alla televisione commerciale?
bloggorai@gmail.com
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