Nei giorni scorsi è successo un fatto molto grave: Sergio Piazzi, un operaio di Rai Way è morto mentre effettuava manutenzione agli impianti. Sarà anzitutto la magistratura ad accertare le responsabilità. Noi ci limitiamo ad esprimere solidarietà per i congiunti e ribadire che non si può, non si deve, morire sul posto di lavoro.
Proponiamo però alcune osservazioni (peraltro già fatte più
volte nel passato). Questi i numeri evidenziati in investimenti operativi dalla quotata Rai: “Al 31 marzo 2020 gli investimenti sono pari a
€ 8,7 milioni, di cui € 7,9 milioni legati ad attività di sviluppo (€ 2,6
milioni nel primo trimestre 2019, di cui € 1,7 milioni in attività di sviluppo)”.
Carta canta: gli investimenti in manutenzione e sicurezza sono una quota
marginale. Osserva un nostro attento lettore: “Una rete di oltre 2000 siti non
la mantieni in efficienza con meno di 4ML annui” e, in questo caso, sono stati
spesi appena 0,8ML. Un altro lettore suggerisce una similitudine con Atlantia: “…1.2 MD in dividendi e 150 ML in
manutenzioni”. Torniamo a quanto scritto in altre occasioni: Rai Way costa
troppo (oltre 180 ML anno) per quanto si potrebbe ottenere sul mercato. Inoltre, le prospettive tecnologiche
di sviluppo della rete broadcast imporrebbe di vendere subito tutto, prima che
sia troppo tardi: le torri si arrugginiscono e non è lontano il giorno in cui
serviranno solo a farne ferro vecchio buono per la rottamazione o, in alternativa,
base di appoggio per i nidi delle rondini e dei passerotti.
Andiamo avanti. Premettiamo che non
ci sono notizie rilevanti sulla stampa di oggi, a parte un articolo su Italia
Oggi, a firma Andrea Secchi, su dati Audiweb del mese di giugno dove si legge
che “… l’andamento dell'audience online a giugno comincia a essere decisamente
più in linea con quello tradizionale legato agli eventi stagionali: i siti di
news continuano il loro ritorno ai livelli pre-covid”.
La bellezza e la ricchezza di
questo blog sono i suoi lettori che non mancano occasione di farci, giustamente, le pulci.
Ieri abbiamo scritto, riportando un’opinione di un lettore che in buona parte
condividiamo, che “la televisione è ciò che manda in onda, è il suo prodotto”. Ci
viene poi osservato: “La Rai è ciò che manda in onda su tutte le piattaforme
(tv, radio, web). La Rai è la sua offerta di contenuti e servizi”. Anche questa
osservazione è corretta: la Rai non è solo televisione, ad esempio è anche Radio
e per certi aspetti lo è anche di più, ed è tante altre cose che sommate
insieme compongono una vasta offerta tra le più importanti se paragonata a
quella degli altri servizi pubblici europei. Ora, il dibattito si affina: si
tratta di intenderci su cosa effettivamente è e su come effettivamente viene
percepita dal suo pubblico. Sono due filoni di ragionamento che non coincidono
sempre. Osserviamo che, nel cosiddetto “immaginario collettivo”, la Rai viene “percepita” per due
pilastri fondamentali: il prodotto editoriale, appunto, che comprende
comunicazione e intrattenimento, e il corrispettivo che è obbligatorio pagare, il
canone.
Proseguendo su questo terreno
torniamo a quanto scritto nei giorni scorsi. Ci è venuta in mente un filone
importante dell’analisi sociale contemporanea:
la sociologia epidemica. Lo spunto ci viene proposto da un testo del sociologo
Philip Strong “Epidemic Psychology: a model” (1990) - ripreso da un post di Capuano R. (2020) La sociologia epidemica di
Philip Strong - dove si legge che: “le epidemie non sono un fenomeno che
interessa esclusivamente la medicina e la fisiologia, ma anche la sociologia e
che le conseguenze delle epidemie hanno un impatto forte sulle società al cui
interno esse circolano. Per la precisione, secondo Strong, la “psicologia
epidemica” genera almeno tre tipi di epidemie psicosociali. La prima è definita
“epidemia della paura”; la seconda “epidemia delle spiegazioni e delle
moralizzazioni”; la terza “epidemia dell’azione o dell’azione proposta”. Provate a riportare queste considerazioni sul
terreno di quanto ha fatto la Rai durante e dopo la crisi del Covid: come ha gestito
e sostenuto i “messaggi” topici, i “contenuti emotivi” proposti ed esposti dai
vari “esperti” che hanno animato per giorni, martellanti e contraddittori, le
giornate passate chiusi in casa.
Aggiungiamo altri spunti: l’ultimo rapporto annuale Istat
sullo stato di salute del nostro Paese, al netto dell’emergenza Coronavirus, ha
mostrato una società complessa che affronta con fatica gravi difficoltà. Ci limitiamo
ad osservare il fronte culturale. Nonostante l’avanzata impetuosa di nuove
tecnologie di comunicazione, sono tanti, troppi, gli italiani in sofferenza e
non solo per il digital divide tra Nord e Sud, ma anche più semplicemente tra
chi ha accesso alla cultura e chi no, tra chi legge almeno un libro l’anno e
chi no, tra chi ha un livello di alfabetizzazione basso e chi invece molto
elevato. Questo il campo del Servizio Pubblico radiotelevisivo, questo il
perimetro che il Contratto di Servizio impone come attività obbligatoria
che invece, troppo spesso, è disattesa. Ieri
lo abbiamo ricordato per quanto riguarda l’impegno sul “sociale”. Tanto per non
farci intorpidire la memoria dal caldo di agosto, ricordiamo sempre la
comunicazione sulla transizione al DVB-T2, come pure l’avvio dei nuovi canali
inglese e istituzionale. Così, tanto per dire, per non farci mancare nulla.
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