mercoledì 30 dicembre 2020

Le Balle e le Bolle di fine d'anno

Dal primo gennaio sarà disponibile su richiesta mail il BloggoRaiReport con la sintesi, 

mese per mese, di quanto avvenuto in Rai e dintorni.

Questo fine d’anno (era ora che arrivasse) per il Servizio Pubblico si chiude tra poche edificanti balle, una bolla e qualche conto che non torna. Della balla su Pompei vi abbiamo scritto (oggi riprende il ragionamento pari pari Italia Oggi con la firma di Claudio Plazzotta) mentre delle bolle si comincia a parlare a proposito di Sanremo, dove si vorrebbe chiudere un po’ di gente (pubblico, giornalisti etc.) in una specie di “bolla galleggiante” ancorata di fronte all’Ariston. Ottusamente a Viale Mazzini ripetono che “Sanremo è Sanremo” e magari dimenticano che pure le Olimpiadi di Tokio sono state rinviate per colpa del Covid. Sui conti la situazione è molto semplice: AgCom ha certificato chiaro e tondo che i ricavi quest’anno per il mercato televisivo italiano si confermano in drastica riduzione, riducendosi per Rai, Medlaset e Sky Italia per oltre il 14%, e si attestano a circa 7,9 miliardi dai circa 9,2 che erano nel 2010 mentre la pubblicità è calata di circa il 14%. Per quanto riguarda in particolare i conti di Viale Mazzini vi abbiamo già scritto in abbondanza. Invece, come leggiamo sul Sole24 Ore a firma di Andrea Biondi (che utilizza dati Auditel elaborati dallo Studio Frasi di Francesco Siliato) la televisione generalista quest’anno ha visto generarsi il fenomeno della crescita di ascolti “obbligata” dalle serate in casa a seguito della pandemia. Infatti, è aumentata la platea televisiva, passando ad oltre 2 mln in più rispetto alla media degli anni precedenti mentre sono aumentati i “pubblici” giovani e istruiti. Che tutto questo sia un buon segno è tutto da verificare. Specie se è determinato da una tragedia collettiva come quella che stiamo vivendo: ne avremmo fatto volentieri a meno. In questo stesso anno, è cresciuto anche in modo esponenziale il pubblico delle piattaforme a pagamento attestandosi a circa 12 mln di abbonamenti e circa 16 mln di telespettatori (un abbonamento è utilizzato da più persone). In qualche modo quello che viene presentato come un successo delle televisioni generaliste, purtroppo, soffre il martello del Covid che ha alterato totalmente le dinamiche del mercato audiovisivo. Difficile pure argomentare su perché i giovani si sono avvicinati o tornati al broadcast: appare evidente che, ampliandosi la platea, ne consegue che si ampliano anche le sue componenti. Da qui a supporre che questo dato sia in relazione al riconoscimento di maggiore credibilità potrebbe essere azzardato. Si può sostenere, al più, che l’informazione televisiva è stata un media obbligatorio e prevalente rispetto alla carta stampata che, infatti, ha visto calare ulteriormente il numero di copie vedute.

Torniamo e chiudiamo il ragionamento sulla cultura che negli ultimi giorni ha tenuto molto banco. Tutto inizia nei mesci scorsi quando viene data forma all’idea del Ministro Franceschini di creare una “Netflix della cultura italiana” alla quale, per un verso o per altro, Rai non partecipa. Prima di proseguire però può essere utile l’intervista ad Andrea Salerno , direttore di La7, che si legge oggi sul Corriere a firma di Renato Franco. Già il titolo è interessante: “Su La7 un ritratto dell'Italia Vero servizio al pubblico”. Citiamo poi un passaggio importante: “La tv generalista come può arginare piattaforme come Netflix e Amazon? «La vera differenza è che noi siamo editori: loro ti offrono un bouquet sconfinato di prodotti dove a volte passi più tempo a scegliere che a guardare; mentre il compito di un editore è proporre e indicare una strada. E la stessa differenza che passa tra un ristorante con mille portate dove ti perdi e un oste che ti consiglia i piatti del giorno. Noi continueremo a esistere se sapremo fare questo lavoro: essere editori tutti i giorni. E l'unico modo di competere con potenze mondiali come quelle”. Salerno è stato dipendente Rai. Un consiglio: riprendetelo, magari con 240 mila euro/anno lordi accetta. 

Ecco allora che il ragionamento si chiude e prende forma: la Rai ha abdicato progressivamente, da tempo, dal suo ruolo istituzionale di “editore” al servizio del pubblico per passare ad essere editore di servizio ad un pubblico, quello della politica che, di fatto, è artefice della sua sopravvivenza.

Il terreno della cultura è centrale: il prodotto audiovisivo, complessivamente inteso, è cultura in ogni sua forma e manifestazione. Il Servizio Pubblico, in assoluto, rappresenta, sintetizza, ripropone la Cultura del Paese con le maiuscole. I “contenuti” sono cultura come pure “cultura” sono le piattaforme tecnologiche con le quali vengono distribuiti. Produrre o comprare un contenuto non è la stessa cosa: quando produci sei garante e responsabile di quello che proponi senza mediazioni e inoltre lo fai rispondendo ad atti di indirizzo pubblici, come il Contratto di Servizio, per il quale percepisci il canone. Quando compri sei solo un mercante e devi giudicare in basa ad un semplice e brutale rapporto di costi/convenienza: quanto pago per avere un prodotto che rende X ascolti. Allora la domanda è semplice: Rai produce cultura? La risposta, ovviamente, è altrettanto semplice: Si. Può produrne di più o meglio? Si e no. Forse il perché è noto: non ci sono soldi. Ma questa risposta non è sufficiente. Si può fare di meglio e di più anche con le risorse scarse di cui oggi la Rai dispone. Una prova? Andate a vedere il sito www.raicultura.it e poi andate a vedere sulla tanto citata RaiPlay se trovate gli stessi contenuti. No, non ci sono e non è un caso. I prodotti prevalentemente “culturali” (ci si conceda la sintesi giornalistica) son distribuiti su tre canali: Rai5, Rai Storia e Rai Scuola dove ognuno sembra andare per proprio conto senza identità e progetto editoriale omogeneo. Sembra una cosa tanto semplice e ovvia che è stupefacente che nessuno ci possa aver pensato. O meglio, è verosimile che qualcuno possa averlo fatto ma ha semplicemente fatto una scelta diversa: si privilegia il potentato interno, le scelte “personalizzate” dove ognuno gestisce il proprio piccolo regno che esso sia musicale (dove, ad esempio, ci dicono, da tempo si privilegiano la case musicali main stream a danno dei compositori contemporanei) oppure letterario o artistico. Abbiamo una proposta. Se ci sono lettori che si vogliono associare, si potrebbe proporre a Rai la realizzazione di un documentario sul Louvre, da realizzare con qualche soldo del Recovery Fund e l’aiuto dell’EBU e magari cercare di venderlo alla BBC, a France Tv o ai giapponesi di NHK. Non avremmo bisogno di grandi capitali.

Vi anticipiamo il tema del prossimo anno: 

il Servizio Pubblico Radiotelevisivo tra pubblico e privato, tra Stato e mercato.

 bloggorai@gmail.com

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