venerdì 22 marzo 2019

La Rivoluzione

Cultura: leggiamo dalla Treccani essere "l'insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale". Bene. ora applichiamo questa definizione al nuovo Piano Industriale della Rai e cerchiamo di capire quanto, in che modo, questo progetto aiuta, si inserisce in un più vasto disegno di supporto cultuale allo sviluppo del Paese. Perchè di questo si tratta e si discute, oltre alla brutale materialità delle risorse economiche (!) come pure della altrettanto brutale fame di poltrone e prebende alle quali tanti aspirano quando si tratterà di far mettere il culo di qualche amico su qualche poltrona delle prossime nove nuove direzioni.

Piccolo passo indietro. Ieri, in una affollata aula universitaria dove chi vi scrive ha avuto il piacere di inervenire, ad un certo punto è stato chiesto agli oltre 100 studenti quanti di loro "consumano" abitualmente prodotti audiovisi sul digitale terrestre (Rai, mediaset etc). Risposta, 4. Quanti di loro invece utilizzano altre piattaforme e quanti di loro sono abbonati a Netflix: Risposta 96.

Ecco allora profilarsi il nodo cruciale di questo Piano industriale, prima ancora della sua lettura e analisi dettagliata: in che modo, con quale visione, con quale prospezione sociale (e quindi culturale) è in grado di intercettare non solo e non tanto la generazione "tablet" ma l'intera società italiana, nelle sue mille diversità e identità, generazionali, linguisitiche e comportamentali. 

Nell'Executive Summary del Piano, nelle prime 12 pagine, si legge molto dei principali trend nel mondo dei media, della Rai in evoluzione per rispondere alle sfide del cambiamento, della Rai in transizione in media company di Servizio pubblico e di Overwiev per colmare il Gap digitale come pure per finanziare la trasformazione. Ma di come, in quale direzione, con quale progetto di respiro lungo, oltre il triennio (ormai biennio) di validità del Piano stesso non si riesce a cogliere traccia.

Ecco allora dove si connette il tema Piano industriale con il Piano culturale (proposto per primo da Laganà) e dove si esprime compiutamente tutta la debolezza strutturale che si avverte dalla prima lettura (certo, ancora sommaria perchè richiede molto tempo). Il tema è tutto nel meccanismo di intercettazione del ruolo di Servizio Pubblico della Rai, come storicamente è stato e potrà essere ancora inteso, con il Paese al quale è rivolto, nelle modalità, nei tempi e nei contenuti con i quali si potrà accompagnare gli italiani a crescere e modellare un percorso di sviluppo civile e democratico.

Tutto torna e le pere, come al solito, cascano dall'albero del pero. La radice primigenia della logica, dell'ispirazione, di questo piano industriale si trova nella recente Legge del 2015 con la quale si santifica il passaggio di paradigma epocale sul controllo dell'Azienda spostato dal Parlamento al Governo. Uno dei soliti autorevolissimi commentatori di questro blog, ci ha appena detto "inutile perdere il tempo sulla coda se non si interviene sulla testa". La testa consiste nel trovare qualcuno che ha la voglia e la forza (parlamentare) di affontare una nuova legge di riassetto non solo sull'Azienda di servizio pubblico, ma sull'intero universo del mondo audiovisivo. Troppo, troppo troppo. Sarebbe necessario trovare un nuovo Gasparri e, francamente, all'orizzonte non si vede nessuno del genere, non tanto nelle persone, quanto nelle forze politiche che pure, nel migliore dei casi, ancora non hanno maturato riflessioni sufficienti ad entrare nel merito. 
Il sasso lanciato nei giorni scorsi da Marco Travaglio quando ha proposto di riesumare una proposta di legge formulata nel 2014 da diverse personalità politiche e culturali, potrebbe essere una sufficiente base di partenza. Occorre però fare passi avanti. 

bloggorai@gmail.com


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