Morale della favola: calma piatta, almeno in apparenza. Nelle
circostanze determinate del momento politico e sociale (nonché sanitario) la Rai
non è tra le esigenze primarie del dibattito pubblico e con questo si dovrà
fare i conti. Del resto, è comprensibile: tra ciò che resta della pandemia, le
crisi sul fronte dell’occupazione e i soldi in arrivo da Bruxelles, delle
beghette di Viale Mazzini non importa un ciufolino a nessuno.
La sola possibile interferenza che si potrà prevedere entro breve potrebbe essere un possibile incontro/dibattito sul tema del Contratto di Servizio che qualche soggetto istituzionale potrà essere indotto ad organizzare, o almeno a dare il suo patronage, magari alla fine del prossimo mese. Si tratta di un tema del quale non si potrà tacere: il Contratto attuale è scaduto e si dovrà procedere e pure rapidamente al suo rinnovo. Ma, allo stesso tempo, è un argomento molto spinoso perché anzitutto si viene a collocare in un contesto, in una contingenza aziendale e politica molto delicata e poi perché, al suo interno, il Contratto prevede che si debba proporre un nuovo Piano Industriale giacché il precedente è scaduto anch’esso. Non è supporre che molti ne farebbero volentieri a meno di impelagarsi, ora, in questo dibattito.
La delicatezza della situazione è
determinata da due fattori: anzitutto l’avvio del nuovo TUSMAR che rivede parti
importanti degli equilibri del mercato audiovisivo (pubblicità e quote di
produzione) e poi il dibattito in corso tra le forze politiche per il raggiungimento
di un accordo sulla riunificazione delle sei proposte di legge di riforma della
governance di Viale Mazzini. Il secondo fattore che in parte vi si ricollega ma
segue dinamiche proprie si riferisce ai temi delle risorse economiche sulle quali
l’Azienda potrà disporre nei prossimi anni e, di conseguenza, sugli investimenti
in prodotti e nuove tecnologie che potrà fare o meno.
Tutto lascia pensare però che
pure su questo fronte non ci sia nessuna fretta: il silenzio imbarazzato che si
avverte in giro è dovuto sostanzialmente all’afonia mentale ormai diffusa e
radicata su un punto centrale: non si sa cosa dire sul futuro dell’Azienda Rai. Nessuno, sottolineare nessuno, ha la più pallida idea
di cosa potrà o dovrà essere la Rai alla fine di questo decennio: una sola rete
di servizio pubblico e una commerciale, metà dei dipendenti attuali e un solo Tg e un solo Gr, una newsroom unica, RaiPlay che non solo diffonde ma produce, i
cittadini non pagheranno il canone che verrà assorbito nella fiscalità generale,
senza pubblicità o che altro dir si voglia. Insomma, una qualunque idea, un
progetto, una visione quale che essa sia, in grado di rompere l’immobilismo
attuale. Tra le leggi della fisica una appare semplice e chiara da intendere:
laddove tuto si muove e un soggetto rimane fermo, ciò sta a dire che quel soggetto
rimane indietro. In un certo senso Fuortes, come del resto coloro che lo hanno
preceduto, ha ragione quando sostiene che con le condizioni attuali è difficile
andare avanti. Se nonché, il suo punto di vista si limita ai libri contabili
aziendali mentre è noto che il futuro della Rai si gioca al di fuori del palazzo
di Viale Mazzini e lui, in quel campo, non può e forse non deve mettere piede. È la
politica, infatti, che deve decidere cosa vuole fare “da grande” (oddddioooooo..
che brutto pensiero … sarà d’obbligo occuparcene lunedì prossimo, dopo che sarà
andata in onda la seconda puntata di Cattelan/Netflix/Vodafone) e cominciare a
porre il problema, nonché trovare una soluzione, del futuro della Rai. Finora,
come abbiamo scritto tante volte, il pensiero politico più ardito si è espresso
nelle proposte di modifica della Legge 220 del 2015 (quella che istituisce,
appunto, la figura dell’AD, l’Uomo Fuortes al Comando) dimenticando o sottovalutando
quanto invece avviene nel mondo dell’economia, delle tecnologie e del mercato
audiovisivo che cambia molto più velocemente di quanto i tempi di Camera e
Senato possono immaginare.
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